giovedì 8 settembre 2016

Recensione di: "La banalità del male" di Hannah Arendt - Il ruolo di Adolf Eichmann nella soluzione finale

Il 6 settembre di settantacinque anni fa la Germania nazista di Hitler impose a tutti gli Ebrei al di sopra dei sei anni di portare una Stella di David di colore giallo con la scritta "Jude", come metodo per una loro identificazione.

Curiosa coincidenza questa, dato che mi ritrovo a parlarvi di un libro estremamente duro e crudo che descrive il processo all'ex nazista Adolf Eichmann, avvenuto nel 1961 a Gerusalemme e documentato anche da numerosi filmati originali dell'epoca.

Hannah Arendt, filosofa, storica e autrice tedesca del saggio "La banalità del male" era, nel 1961, un'inviata del settimanale New Yorker incaricata di assistere al processo dell'ex nazista, accusato di crimini contro l'umanità.
Il libro si apre con una attenta considerazione su quelle che furono le condizioni in cui venne condotto il processo che, secondo la Arendt fu strumentalizzato. Eichmann, lungi dall'essere innocente del crimine di cui fu accusato, venne rapito in Argentina e condotto clandestinamente in Israele e lì giudicato: quindi, processato e giudicato da coloro che erano le vittime, il che risultava contrario a qualsiasi diritto penale il quale prevede che non deve essere la vittima a giudicare il carnefice, bensì una terza parte che sia imparziale.

Detto questo, la Arendt traccia il profilo della carriera di Eichmann, dalla quale risulta che egli fu il più grande esperto in questioni ebraiche. Nel 1938 fu incaricato ufficialmente di occuparsi "dell'emigrazione forzata" che organizzò mettendo in piedi un'efficace catena di montaggio:
"era come una fabbrica automatica: a un capo di un edificio si infila un ebreo che possiede ancora qualcosa, una fabbrica, un negozio, un conto in banca e questo percorre l'edificio da uno sportello all'altro e sbuca all'altro capo senza un soldo, senza più nessun diritto, solamente un passaporto in cui si dice: devi lasciare il paese entro quindici giorni altrimenti finirai in un campo di concentramento."
Il suo compito era quello di intrattenere rapporti e negoziare con i funzionari ebrei, i quali gli chiedevano aiuto perchè "desideravano" emigrare e lui era lì ad aiutarli, dato che le autorità naziste "desideravano" il loro Reich ripulito dagli ebrei. In questo modo i due desideri coincidevano.

Durante il processo apparve però ben presto chiaro e inconfutabile che il lavoro di Eichmann veniva condotto e portato a termine con la collaborazione dei funzionari delle comunità ebraiche, uomini a cui i nazisti concedevano poteri enormi e che consegnavano nelle mani del nemico i propri fratelli (finchè un giorno deportarono anche loro).

Quando nel 1941 venne ordinato lo sterminio finale, Eichmann fu incaricato alla deportazione all'interno della "soluzione finale"; tuttavia il ruolo ad esso attribuito venne ampiamente ingrandito, un po' anche a causa delle sue stesse vanterie. 

Quello che emerge dalle pagine di questo saggio è che Eichmann appare agli occhi del mondo, come un esaltato, capace di non ricordare la data esatta dello scoppio della guerra o dell'invasione della Russia, ma di ricordare perfettamente frasi da lui pronunciate in questo o quel momento della sua vita; incapace di controbattere alle accuse per mancanza di memoria su fatti oggettivi ma abilissimo nel rammentare i propri successi personali. 

Insomma, nella disamina dettagliata del processo, delle accuse e del ruolo di Eichmann nella soluzione finale, la Arendt ha avuto modo di riflettere sulla natura umana e sulla sua capacità di perpetrare il male. 

Il profilo tracciato non è quello di un sadico o di un mostro assetato di sangue, ma di un uomo assolutamente mediocre che fa, però ad altissimo livello, una specie di contabilità dell'essere umano, precisa fino alla quarta cifra dopo la virgola.
Egli è un burocrate che indossa tutti i giorni i paraocchi, assolutamente sprovvisto di un suo spessore morale, di una sua coscienza e che non considerando le conseguenze delle proprie azioni diventa inconsapevolmente la mano assassina di qualcun altro. 

E questo, sfortunatamente, è qualcosa di estremamente banale e ordinario. 

Quest'opera è complessa e corposa, ma vale ogni minuto speso sul testo.

Buona lettura!

{La banalità del male, Hannah Arendt, Feltrinelli Editore, Pagine 320}

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